Contro la morale da stato civile

Pare proprio che al termine della discussione della tesi che di lì a poco si sarebbe dovuta intitolare Storia della follia nell’età classica, Michel Foucault avesse dichiarato che per parlare di certe cose sarebbero servite le parole di un poeta. «E lei lo è» gli avrebbe risposto allora Georges Canguilhem, riconoscendo all’esposizione del candidato una potenza stilistica che negli anni successivi si sarebbe rivelata addirittura equivoca, oltre che proverbiale. Perché la grandezza dello stile in dotazione al discorso filosofico avrebbe alimentato sospetti di manipolazione e formalismo, come se la verità non potesse tollerare il conforto cognitivo della retorica, creando uno sbandamento delle discipline umanistiche nel mito conservatore di una loro presunta, auspicabile scientificità.

Così, nell’estate del 1968, mentre corregge per l’ultima volta il manoscritto di L’archeologia del sapere, Foucault sembra determinato a fare i conti con le controindicazioni del talento letterario e accetta quindi la proposta del critico Claude Bonnefoy che lo invita a riflettere insieme sulla «trama segreta» dei suoi libri. Sono settimane, quelle, in cui si attenuano finalmente le polemiche suscitate da Le parole e le cose e l’annunciata morte dell’uomo che per mesi e mesi hanno tenuto banco sulle principali riviste francesi, culminando nelle parole un tantino esagitate di Jean-Paul Sartre («Foucault è l’ultimo baluardo della borghesia») e nella condanna della Sorbona occupata alle sofisticazioni dello strutturalismo («Le strutture non scendono in strada»).

Nel dialogo con Bonnefoy, dunque, per Foucault si tratta di comprendere soprattutto quali siano le ragioni personali che lo hanno esposto a un tale fraintendimento, rivendicando una valenza esplorativa dello stile che non pertiene solo alla dimensione dello scrittore, vale a dire della scrittura in cerca di se stessa, ma riguarda più in generale il lavoro transitivo dello scrivente, come lo aveva definito Roland Barthes. E del filosofo, quindi, dello storico e del teorico della morte dell’uomo che ha mobilitato lo stile alla scoperta del mondo. Di questo dialogo, l’editore Cronopio ha proposto la sola, splendida parte che per fortuna non è andata perduta, titolandola Il bel rischio (traduzione di Antonella Moscati, pp. 86, euro 10).

Parte nella quale Foucault parla di sé e della propria famiglia senza apparenti inibizioni, una famiglia di medici che potrebbero aver determinato il suo difficile rapporto con la scrittura, spiega, perché nella visione ancora ottocentesca della medicina le parole non sono che uno schermo sul quale rintracciare le ditate della patologia. Scrivere bene, pertanto, avrebbe significato lucidare una superficie priva di valore, riservandole un’attenzione che le persone serie concedono semmai ai metalli preziosi.

La scoperta della lingua, così, deve avvenire molti anni dopo e lontano da casa, in Svezia, dove l’inglese e lo svedese non gli forniranno un supporto adeguato all’elaborazione dei propri stati d’animo. Ed ecco allora che il figlio del medico, che oltretutto dei medici è pure nipote e pronipote, scopre come anche le parole abbiano una loro «fisionomia» in quanto corpi sui quali esercitare una professione analoga a quella del padre, del nonno o del bisnonno.

Così, mentre confessa a Claude Bonnefoy di considerarsi più un medico o un diagnostico che un filosofo, Foucault potrebbe averci autorizzato a rileggere la Nascita della clinica in modo cifrato, come una specie di autobiografia in codice attraverso la quale si sarebbe esposto al rischio di «declinare per la prima volta in prima persona quel discorso neutro, oggettivo», nel quale lui stesso dichiara di non aver mai smesso di andarsi a nascondere scrivendo dei libri.

Ma resta da fare un po’ di luce, su questa prima persona, perché a dire «immagino che nel mio pennino ci sia una vecchia eredità del bisturi» non può essere qualcuno che ignora totalmente le parole di Sainte-Beuve, secondo il quale già un altro «figlio e fratello di medici illustri», cioè Gustave Flaubert, «adoperava la penna come un bisturi». Lo stesso Flaubert che amava ripetere di voler scomparire nella scrittura proprio come Michel Foucault, ora, esprime il desiderio di «non essere altro in fatto di vita che quegli scarabocchi morti e ciarlieri che si depongono sulla carta».

La sensazione, allora, è che il figlio del dottor Foucault sappia benissimo quale sia il precedente che lo sta abilitando a parlare in prima persona, ma che non voglia renderlo noto. Ed è un po’ come se dichiarasse di non poter ambire al titolo di grande scrittore, di reputarsi uno scrivente, ma uno scrivente molto simile a un tale di nome Gustave Flaubert. La cui funzione genealogica, senza dubbio, non avrebbe particolarmente giovato alla rivendicazione di una scrittura transitiva, ma poteva comunque assicurare a un’opera nascostamente letteraria come Le parole e le cose di sopravvivere alle sue interpretazioni.

Con la leggerezza dei pensieri di agosto, allora, varrà forse la pena segnalare come quello della sopravvivenza sia probabilmente il tema più inquietante dell’intervista, perché mentre ammette di non riuscire a scrivere senza chinarsi «sul cadavere degli altri», proprio Foucault sembra assumere la posizione costitutiva di qualunque potere. Ma che l’esercizio della scrittura potesse degenerare in un delirio di onnipotenza non era un mistero: lo stesso Flaubert, sempre lui, diceva che il privilegio del grande scrittore consiste nel «tenere gli uomini a friggere nella padella di una frase per farli saltare come castagne».

E’ quindi un peccato che l’autore di Sorvegliare e punire o della Volontà di sapere non abbia mai fatto riferimento a Massa e potere, che in Francia viene pubblicato lo stesso anno e nella stessa collana di Le parole e le cose. Ed è un peccato perché l’intervista con Claude Bonnefoy lo deve aver condotto ai confini delle riflessioni contenute in quel grande libro, che alla scena primaria del sopravvissuto e del suo sguardo mortifero opponeva la capacità di metamorfosi.

Perché anche di questo, in fondo, al termine dell’intervista, pare che si sia trattato: di intuire l’inimicizia titanica e interna alla scrittura tra la volontà di dominio e l’adesione alla vita. Un’adesione che nel marzo del 1969, pochi mesi dopo, quando conclude l’introduzione a L’archeologia del sapere, Foucault potrebbe aver riaffermato dicendo: «Più di uno, come me, scrive per non avere più volto. Non domandatemi chi sono e non chiedetemi di restare lo stesso: è una morale da stato civile; regna sui nostri documenti. Ci lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere».

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