Contro la morale da stato civile

Pare proprio che al termine della discussione della tesi che di lì a poco si sarebbe dovuta intitolare Storia della follia nell’età classica, Michel Foucault avesse dichiarato che per parlare di certe cose sarebbero servite le parole di un poeta. «E lei lo è» gli avrebbe risposto allora Georges Canguilhem, riconoscendo all’esposizione del candidato una potenza stilistica che negli anni successivi si sarebbe rivelata addirittura equivoca, oltre che proverbiale. Perché la grandezza dello stile in dotazione al discorso filosofico avrebbe alimentato sospetti di manipolazione e formalismo, come se la verità non potesse tollerare il conforto cognitivo della retorica, creando uno sbandamento delle discipline umanistiche nel mito conservatore di una loro presunta, auspicabile scientificità.

Così, nell’estate del 1968, mentre corregge per l’ultima volta il manoscritto di L’archeologia del sapere, Foucault sembra determinato a fare i conti con le controindicazioni del talento letterario e accetta quindi la proposta del critico Claude Bonnefoy che lo invita a riflettere insieme sulla «trama segreta» dei suoi libri. Sono settimane, quelle, in cui si attenuano finalmente le polemiche suscitate da Le parole e le cose e l’annunciata morte dell’uomo che per mesi e mesi hanno tenuto banco sulle principali riviste francesi, culminando nelle parole un tantino esagitate di Jean-Paul Sartre («Foucault è l’ultimo baluardo della borghesia») e nella condanna della Sorbona occupata alle sofisticazioni dello strutturalismo («Le strutture non scendono in strada»).

Nel dialogo con Bonnefoy, dunque, per Foucault si tratta di comprendere soprattutto quali siano le ragioni personali che lo hanno esposto a un tale fraintendimento, rivendicando una valenza esplorativa dello stile che non pertiene solo alla dimensione dello scrittore, vale a dire della scrittura in cerca di se stessa, ma riguarda più in generale il lavoro transitivo dello scrivente, come lo aveva definito Roland Barthes. E del filosofo, quindi, dello storico e del teorico della morte dell’uomo che ha mobilitato lo stile alla scoperta del mondo. Di questo dialogo, l’editore Cronopio ha proposto la sola, splendida parte che per fortuna non è andata perduta, titolandola Il bel rischio (traduzione di Antonella Moscati, pp. 86, euro 10).

Parte nella quale Foucault parla di sé e della propria famiglia senza apparenti inibizioni, una famiglia di medici che potrebbero aver determinato il suo difficile rapporto con la scrittura, spiega, perché nella visione ancora ottocentesca della medicina le parole non sono che uno schermo sul quale rintracciare le ditate della patologia. Scrivere bene, pertanto, avrebbe significato lucidare una superficie priva di valore, riservandole un’attenzione che le persone serie concedono semmai ai metalli preziosi.

La scoperta della lingua, così, deve avvenire molti anni dopo e lontano da casa, in Svezia, dove l’inglese e lo svedese non gli forniranno un supporto adeguato all’elaborazione dei propri stati d’animo. Ed ecco allora che il figlio del medico, che oltretutto dei medici è pure nipote e pronipote, scopre come anche le parole abbiano una loro «fisionomia» in quanto corpi sui quali esercitare una professione analoga a quella del padre, del nonno o del bisnonno.

Così, mentre confessa a Claude Bonnefoy di considerarsi più un medico o un diagnostico che un filosofo, Foucault potrebbe averci autorizzato a rileggere la Nascita della clinica in modo cifrato, come una specie di autobiografia in codice attraverso la quale si sarebbe esposto al rischio di «declinare per la prima volta in prima persona quel discorso neutro, oggettivo», nel quale lui stesso dichiara di non aver mai smesso di andarsi a nascondere scrivendo dei libri.

Ma resta da fare un po’ di luce, su questa prima persona, perché a dire «immagino che nel mio pennino ci sia una vecchia eredità del bisturi» non può essere qualcuno che ignora totalmente le parole di Sainte-Beuve, secondo il quale già un altro «figlio e fratello di medici illustri», cioè Gustave Flaubert, «adoperava la penna come un bisturi». Lo stesso Flaubert che amava ripetere di voler scomparire nella scrittura proprio come Michel Foucault, ora, esprime il desiderio di «non essere altro in fatto di vita che quegli scarabocchi morti e ciarlieri che si depongono sulla carta».

La sensazione, allora, è che il figlio del dottor Foucault sappia benissimo quale sia il precedente che lo sta abilitando a parlare in prima persona, ma che non voglia renderlo noto. Ed è un po’ come se dichiarasse di non poter ambire al titolo di grande scrittore, di reputarsi uno scrivente, ma uno scrivente molto simile a un tale di nome Gustave Flaubert. La cui funzione genealogica, senza dubbio, non avrebbe particolarmente giovato alla rivendicazione di una scrittura transitiva, ma poteva comunque assicurare a un’opera nascostamente letteraria come Le parole e le cose di sopravvivere alle sue interpretazioni.

Con la leggerezza dei pensieri di agosto, allora, varrà forse la pena segnalare come quello della sopravvivenza sia probabilmente il tema più inquietante dell’intervista, perché mentre ammette di non riuscire a scrivere senza chinarsi «sul cadavere degli altri», proprio Foucault sembra assumere la posizione costitutiva di qualunque potere. Ma che l’esercizio della scrittura potesse degenerare in un delirio di onnipotenza non era un mistero: lo stesso Flaubert, sempre lui, diceva che il privilegio del grande scrittore consiste nel «tenere gli uomini a friggere nella padella di una frase per farli saltare come castagne».

E’ quindi un peccato che l’autore di Sorvegliare e punire o della Volontà di sapere non abbia mai fatto riferimento a Massa e potere, che in Francia viene pubblicato lo stesso anno e nella stessa collana di Le parole e le cose. Ed è un peccato perché l’intervista con Claude Bonnefoy lo deve aver condotto ai confini delle riflessioni contenute in quel grande libro, che alla scena primaria del sopravvissuto e del suo sguardo mortifero opponeva la capacità di metamorfosi.

Perché anche di questo, in fondo, al termine dell’intervista, pare che si sia trattato: di intuire l’inimicizia titanica e interna alla scrittura tra la volontà di dominio e l’adesione alla vita. Un’adesione che nel marzo del 1969, pochi mesi dopo, quando conclude l’introduzione a L’archeologia del sapere, Foucault potrebbe aver riaffermato dicendo: «Più di uno, come me, scrive per non avere più volto. Non domandatemi chi sono e non chiedetemi di restare lo stesso: è una morale da stato civile; regna sui nostri documenti. Ci lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere».

Pasolini al mare

Memoria del mondo e ricordi d’infanzia: nel nuovo romanzo avrebbero dovuto coincidere, ma Pasolini non lo scriverà oltre l’introduzione (Coleo di Samo) e un capitolo autobiografico (Operetta marina). Capitolo nel quale di marino c’è soltanto un’esplicita trasfigurazione del Po, ma non cambia nulla, dato che in fondo a quella memoria e a quei ricordi bisognerebbe vedere come era il mare «prima di essere pensato» o «come sarebbe sempre stato se noi non lo avessimo mai veduto». In mancanza di una memoria minerale, allora, Pasolini si affida ancora una volta alla «ristrettezza di una superstizione plebea più che proletaria», all’«odore di cattivo tabacco, di Nazionali o mozziconi raccolti sui marciapiedi delle taverne, nell’ora in cui le prime strisce di urina cominciano a rigarli» e a una complessiva «povertà così ricca di potenza umana» da corrispondere finalmente alla potenza racchiusa nei ricordi dell’infanzia. Sul mare si poserà quindi lo sguardo anonimo di «un vecchio di Peschici o un giovanotto di Napoli, con una identica ignoranza».

Sguardo anonimo, si diceva, ma piuttosto convenzionale: Robinson Crusoe è la storia di un naufrago dal nome storpiato, il protagonista de I lavoratori del mare ha «un nome qualunque», Nessuno è il comandante del Nautilus, Nessuno è arrivato dal mare per conficcare un tronco d’ulivo nell’occhio di Polifemo e davanti al monumento incontrastato di questo genere di cose, scrive CLR James, bisognerà rassegnarsi all’evidenza che a farsi chiamare Ishmael è uno di quei tipi che «vivono all’angolo di ogni strada». Le ragioni di questa indifferenza sembrano rinviare al rapporto che il mare deve aver stabilito nei secoli con tutti coloro che vi hanno cercato e trovato una via di fuga, come diceva Carlo Levi degli emigrati negli Stati Uniti:

Essi hanno abbandonato le antiche terre d’Europa fuggendo le sue eredità e le sue passioni, fuggendo le persecuzioni religiose o i conti da rendere alla giustizia, e il peso delle infrazioni alle regole della vita comune, o le discriminazioni razziali, o i rapporti feudali, o la servitù, o la miseria. Questi pesi della storia sono rimasti di là dal mare. E ogni uomo, nella sua vicenda individuale, ha compiuto il volontario rifiuto della storia che è il battesimo americano.

E’ esattamente in questo mare, un mare che consente di sopravvivere al proprio nome e alla propria storia, attraverso uno sguardo disorganico al dominio perché residuale, che il vecchio di Peschici o il giovane di Napoli incarnano la possibilità di vedere le cose come se fosse la prima volta, ma da una precisa angolazione politica. Perché l’alternativa di Pasolini al «mare originario» ha preso la forma indicata dalle rappresentazioni sociali di Coleo e l’unica genesi alla quale il programma archeologico deve ambire, a questo punto, potrà emergere soltanto da uno sguardo incapace di consapevolezze. In una pagina di Atti impuri, a questo riguardo e facendo riferimento agli stessi pomeriggi in cui il maltempo gli impediva di assistere alle metamorfosi del Po, Pasolini ricorda:

Allora mi si proponeva il fatto della rappresentazione come qualcosa di compromettente e di primordiale, appunto perché in uno stato di purezza: l’equivalente doveva essere definitivo.

Anche l’archeologia del mare, così, il programma che sfuma nella ricerca puntualmente delusa di un mare inorganico e poi incontaminato o quantomeno preverbale o se non altro inconscio, non approda necessariamente alla «ristrettezza di una superstizione plebea più che proletaria» che in qualche modo rimarrebbe fedele alla purezza dello slancio iniziale, ma rappresenta la prospettiva ideologica in cui si è potuta esprimere la qualificazione preliminare di una specifica forma di vita. Non è l’occhio del vecchio anonimo e plebeo a trattenere un riverbero dell’origine, ma il mito dell’origine a prodursi nella preferenza accordata a quello sguardo.

Così, la descrizione più corretta di ciò che accade in queste pagine, la potrebbe aver fornita lo stesso Pasolini all’inizio della Divina Mimesis, quando i ricordi d’infanzia e la visione degli operai vestiti a festa per una riunione di partito non si giustificheranno più per la loro eventuale prossimità a una vita più autentica, ma con il tentativo esplicito di fare «esperienza di una forma di vita allo scopo di esprimerla».

L’antivirus dei giorni che verranno

Phase2

Anche oggi mi affaccio alla finestra di casa per vedere il viale vuoto. Lo percorrono a intervalli regolari soltanto gli autobus, pochissime macchine, qualche pedone con il sacchetto della spesa oppure personaggi strani che parlano a voce molto alta, non sempre al telefono. Per il resto fa soprattutto silenzio, appesantito dal ronzio di un impianto di ventilazione e una radio accesa chissà dove. Rumori elementari, che nella città improvvisamente ridotta al reso di se stessa diventano incredibilmente affilati.

Il paesaggio è quello della “derelict land”, una distesa ben ordinata di vuoti urbani interrotti qua e là da qualche sito archeologico del funzionalismo come i supermercati o le farmacie. E proprio come accade ai relitti industriali ingoiati dalla vegetazione, anche da noi l’acciottolato di Piazza Grande sta virando vistosamente al verde, forse a causa di un muschio, con l’erba sotto le panchine.

Intanto le telecamere di videosorveglianza catturano le immagini di lepri, tassi e caprioli che vagano disorientati per le strade, così nelle caserme devono scorrere filmati del tipo National Geographic. La tendenza sarà sicuramente quella ad archiviare il caso sostenendo che sarebbe la natura – in questo modo – a reclamare ciò che un tempo le spettava, ma c’è qualcosa di sbagliato nell’ignorare che a confiscarglielo è stata la natura che siamo.

cq5dam.web.738.462

Natura storica, certo, il nostro essere un pezzo del pianeta nelle forme specifiche della corporeità, del linguaggio e dei rapporti sociali che abbiamo ereditato vivendo: la nostra storia di papi e condottieri intrecciata a quella dei muschi e dei pesci.

Ecco che a rifarsi viva non è solo la natura, quindi, ma un altro tempo storico, approfittando del ricovero che la pandemia ha imposto agli automatismi per uscire nuovamente allo scoperto. Un tempo che stava lì, ad attenderci dentro al nostro, come il lievito e la farina che ora scarseggiano nei supermercati.

Così alla Barilla rispolverano la vecchia musica di Vangelis, quella che tutti abbiamo straziato almeno una volta con il flauto o la pianola delle scuole medie: allora doveva intensificare il piacere del sentirsi finalmente a casa, ora mette la nostalgia per le piazze e i porticati che abbiamo improvvisamente evacuato.

La stessa parola “quarantena” ha un suono anacronistico che se ne stava sepolto nel cimitero dei tanti latinorum come sciopero, uguaglianza, padroni o lotta di classe che il nostro tempo si beava di aver inumato. Eccola qua, invece, a volte travestita da “lockdown” ma pur sempre indispensabile per nominare il punto più estremo della nostra esperienza più attuale e contemporanea, la posizione di equilibrio che proviamo a mantenere sul bordo dell’incertezza.

Sono tutte gravidanze di una materia impastata della nostra storia con quella del pianeta e dell’universo, un composto in continua fermentazione di corpi celesti, virus, decreti legge e forme di resistenza che insieme al ritorno dei tassi o dei vecchi spot della Barilla, fra qualche giorno, insieme al suono di una radio rimasta accesa chissà dove, sarà nuovamente il 25 aprile.

Ma senza l’incontro dei corpi e della loro memoria, bisognerà prepararsi a una ricorrenza diversa. Un 25 aprile senza festa della liberazione, un 25 aprile del 1944, ecco, quando non eri ancora certo di fare la cosa giusta ma la facevi insieme agli altri. Quest’anno abbiamo la grande occasione di ricordarlo, senza la banda cittadina o la grigliata al parco, un 25 aprile di altri tempi che sono rimasti a fermentare nel nostro. Probabilmente sarà il modo migliore per sapersi riconoscere dopo.

Caterina Rosa, una donna al davanzale

A causa della frequenza con la quale in questi giorni viene evocata «la peste del Manzoni», mi pare doveroso tornare a riflettere su quanto accadde a Milano il primo giorno d’estate del 1630, quando alle prime luci del mattino una donna affacciata alla finestra avvista un uomo che sta camminando rasente al muro. La donna si chiama Caterina Rosa e non deve senz’altro ignorare che giù in strada diluvia, ma la scena alla quale assiste la insospettisce comunque. In città si dice che quattro francesi siano fuggiti da Madrid con l’accusa di spargere unguenti e l’attesa dei forestieri ha già comportato il pestaggio di tre turisti in visita al Duomo.

Così, mentre nel quartiere si diffonde la voce che qualcuno ha imbrattato i muri del corso, Caterina non esita a mettere nei guai il tipo con il cappello sugli occhi che ha spiato poche ore prima. L’uomo si chiama Guglielmo Piazza e fa un mestiere davvero maledetto, nella città appestata, dove i funzionari come lui diventano gli operatori di una violentissima ristrutturazione dei rapporti politici e sociali. Che li rende tre volte sospetti: perché il popolo ne patisce le disposizioni, perché il governo ne sorveglia l’operato e perché sono professionalmente esposti a entrare in contatto con l’epidemia, che potrebbero far circolare.

Una descrizione particolarmente accurata di questo triplice legame la forniscono le cronache della «grande peste» londinese redatte nel 1722 da Daniel Defoe, il quale racconta ciò che accadde quando l’infezione cominciò a minacciare la City. Fu solo in quel momento, infatti, che gli sceriffi assegnarono a ogni parrocchia un ispettore che avrebbe avuto il compito di vigilare sulle condizioni sanitarie dei singoli quartieri, mentre davanti alle case degli appestati, porta a porta, avrebbero stazionato «giorno e notte» due guardiani sotto la minaccia di «severi castighi». Alla base di questa «grande piramide del potere», come la definisce Michel Foucault, si sarebbero poi date da fare le donne addette all’ispezione dei cadaveri, soggette alla sorveglianza dei medici. Che a loro volta, scrive ancora Defoe, dovevano rispondere delle proprie azioni agli stessi ispettori che gli sceriffi minacciavano di severe sanzioni. Ciascuno sorvegliava e ciascuno veniva sorvegliato, insomma, impedendo ai timori per la propria sorte di averla vinta sul terrore instaurato dall’esecutivo.

Quello che l’epidemia può infatti favorire è «il momento meraviglioso nel quale il potere politico si esercita pienamente, (…) in cui la suddivisione di una popolazione viene portata al suo punto estremo, il momento in cui non si può più produrre alcuna comunicazione pericolosa, alcuna comunità confusa, alcun contatto proibito». Con parole diverse ma sempre di Michel Foucault, «il momento della peste è quello della suddivisione esaustiva di una popolazione da parte di un potere politico le cui ramificazioni capillari raggiungono senza interruzione la grana degli individui stessi, il loro tempo, il loro ambiente, la loro localizzazione, il loro corpo». Un momento che le circostanze rendono particolarmente instabile, è vero, ma comunque rivelatorio: un «sogno politico della peste» che assicura al potere la libera espressione di un’interiorità oscena.

Tra lo sceriffo di Londra e le singole abitazioni descritte da Defoe, si è dunque creato un rapporto diretto e lineare che vincola ciascuno al proprio ruolo, facendolo tuttavia dipendere da una catena di comando che rende quel sogno parzialmente incompleto. I funzionari (le ramificazioni di Foucault) potrebbero infatti sottrarsi a un compito che li obbliga a entrare continuamente in contatto con la minaccia di morte: è per questo che vengono ricattati ed è per questo che in alcuni casi faranno ugualmente perdere le loro tracce, come riferisce lo stesso Defoe.

Perché il comando possa davvero irrorare la «grana degli individui stessi», allora, bisognerà ricorrere a una forma di mobilitazione diversa, ancora più economica e totale. Ed è proprio così che Caterina Rosa e gli altri spettatori entrano di slancio sulla scena politica, per compendiare le pessime ragioni del potere con l’offerta di una sorveglianza integrale, che si apposta volontariamente ai davanzali. E creando un precedente al quale si potranno poi richiamare tutte le dittature, secondo Hannah Arendt, le quali si affermerebbero quando «un vicino di casa diventa a poco a poco un nemico più insidioso degli agenti ufficiali».

La «cattività» denunciata da Manzoni, la degenerazione dei tessuti sociali che si evidenzierebbe nelle scelte dei magistrati milanesi, tende a investire nel suo complesso lo statuto della cittadinanza, perché l’immoralità delle sentenze rinvia al terrore del «non trovar colpevoli» reso decisivo dalla presenza di un «pubblico». Caterina Rosa, dunque, la «spettatrice» che amministra la sua cambiale di potere dalla finestra di casa, l’autrice di un avvistamento dal quale dipenderanno le torture e il supplizio dei presunti colpevoli, questo personaggio della microstoria che sembrerebbe esaurirsi nella «superstizione» e nel «fanatismo» – è qualcosa di più.

Tanto per cominciare non si tratta di una singola signora che verso le quattro e mezzo del mattino inganna il tempo pattugliando la via che conduce alle colonne di San Lorenzo. In una prima redazione della Colonna infame non è neppure sola, ma entra immediatamente in scena al fianco di una comprimaria (Ottavia Boni) che nella stesura definitiva Manzoni deciderà di nominare altrove. A rendere più credibile la deposizione di Caterina, poi, contribuiscono alcune lavandaie, che una volta chiamate a fornire una perizia sul recipiente prelevato dal cortile del barbiere dichiarano di non avere dubbi: quell’acqua nasconde delle «furfanterie». E infine ci sono le consulenze di un medico e di due fisici che confermano la versione delle donne.

Perché accadeva infatti che «mentre le piaghe, i cadaveri a mucchi e i moribondi qua e là giacenti facevano inorridire – aveva scritto lo stesso cardinale Ripamonti ampiamente citato da Manzoni nel XXXII capitolo dei Promessi sposi – ed i morti commisti ai vivi tramutavano questa città in un solo sepolcro ed in un rogo, la pubblica calamità diveniva sempre più orrenda per gli odi intestini, l’esacerbazione degli animi, e il mostruoso sospetto che taluni, corrotti e venduti al demonio, a prezzo d’oro attendessero a disseminare la pestilenza. I congiunti medesimi e gli amici si schivavano; né si paventava solo il vicino e l’ospite come pericoloso, ma i genitori, il figlio, il fratello, il marito e la moglie, a cui uniscono i vincoli dell’affetto. Orribile e vergognoso a dirsi: la mensa, il talamo, e checché altro v’ha di santo per diritto di natura e delle genti, incuteva terrore, come se lì appunto s’appiattasse e si diffondesse il morbo. Trepidanti e con piè sospeso i cittadini giravano le strade, sopraffatti dalla paura de’ pestiferi unguenti».

Le stoviglie e i materassi risultano comunque infestati dal terrore, appiattando l’emergenza nelle incrinature dei rapporti più intimi e nella penombra dei soggiorni. Ed è per compiere un’ispezione altrettanto microscopica che dovranno aguzzare lo sguardo i sodali di Caterina, fin sotto le lenzuola, dove le indagini dei ministri, della «sbirraglia» o degli sceriffi finirebbero inevitabilmente col risultare più impopolari, oltre che impossibili.

E c’è da scommettere che lo faranno, che sospetteranno e che verranno sospettati, come spiega il presidente della commissione logistica in Cecità, il romanzo di Saramago. Il momento della storia è quello in cui il ministro fa notare che per trasferire i reclusi da un’ala all’altra del manicomio, dove vivono rispettivamente coloro che sono solo entrati in contatto con il «mal bianco» e i ciechi effettivi, ci sarà bisogno di obbligare i soldati a compiere un dovere che li espone al rischio di morte. Non sarà indispensabile, dice allora il presidente, perché «qualora uno dei sospetti diventi cieco, com’è naturale che succeda prima o poi, stia certo, signor ministro, che gli altri, coloro i quali hanno ancora la vista, lo metteranno fuori all’istante». Tanto che i prigionieri rimarranno rinchiusi nel manicomio anche quando non li obbligherà più nessuno, finché l’unica donna che non ha ancora perso la vista farà una scoperta sensazionale: «I soldati se n’erano andati».

Perché da un lato le prospettive di vita «si esprimono per così dire nella distanza dagli ammalati» e nella separazione dalla «massa di tutte le vittime», come ha scritto Elias Canetti, mentre dall’altro sono proprio questa distanza e questo distacco a comportare un nuovo «fenomeno di socializzazione» (è la tesi di Georges Didi-Huberman). A questo riguardo basti pensare come furono proprio le misure adottate dalle autorità medievali per fronteggiare la morte nera – con la creazione degli ispettorati sanitari, il registro dei decessi, la certificazione delle merci e il rilascio dei passaporti – a introdurre nel nord Italia e poi in tutta Europa una prima fase di modernizzazione. In Inghilterra, ha poi scritto Angelo Pastore, la grande peste avrebbe accelerato «il progressivo affermarsi delle esigenze del diritto di proprietà rispetto alla più antica concezione cristiana dei diritti naturali, che riconoscevano anche ai più poveri almeno il diritto alla vita». Ed è proprio qui, adesso, tra la vita dei mendicanti e le prerogative della proprietà, che si è introdotta la vigilanza di Caterina, rivendicando una funzione peculiare nella genealogia dei nuovi poteri che si stanno definendo nel corpo a corpo con l’epidemia.

Nella città allucinata dal desiderio politico della peste, infatti, dove chiunque viene abilitato a sorvegliare i comportamenti di un corrionale sospetto, fantasmatico e potenzialmente mortifero, la mobilitazione degli sguardi annuncia già lo stesso «rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini» che si sarebbe consolidato nella società dello spettacolo. Nel capitolo dedicato alla programmazione del territorio, Debord osserva come in seguito all’isolamento prodotto dall’urbanismo, la produzione di immagini a mezzo di immagini e la loro circolazione abbiano reso comunque necessaria una forma di contatto e di integrazione tra gli individui separati, trasformandoli in «individui isolati insieme». Ed ecco allora che «le fabbriche come le case della cultura, i villaggi turistici come i grandi agglomerati, sono specificamente organizzati ai fini di questa pseudo-collettività che accompagna l’individuo isolato anche nella cellula familiare: l’impiego generalizzato dei ricevitori del messaggio spettacolare fa sì che il suo isolamento si ritrovi popolato delle immagini dominanti, immagini che per questo isolamento soltanto acquistano la loro piena potenza».

Nell’albero genealogico di questa «pseudo-collettività» non sarà difficile riconoscere le spettatrici di Manzoni, verso le quattro e mezza del mattino, alle prese con una rappresentazione segnaletica della pestilenza che le loro solitudini tenderanno inevitabilmente a rendere sempre più inclusiva e micidiale. Perché «l’immagine di quel supposto pericolo – aveva detto il narratore dei Promessi sposi – assediava e martirizzava gli animi molto più che il pericolo reale e presente» ed è questo fantasma del pericolo che gli animi martirizzati devono comunque porre al centro della loro paradossale coesione, la stessa che il governo della peste passerà in consegna al Panopticon di Jeremy Bentham e con la quale la folla «viene abolita in favore di un collezione di individualità separate», scrive appunto Foucault.

Questo rapporto tra separatezza e potenza delle immagini, si può chiarire attraverso i comportamenti della «pseudo-collettività» dei ciechi tra i quali Saramago decide di introdurre una radio, perché qualcuno possa ascoltare e riferire agli altri ciò che dice il notiziario. «Con parole sue riassumeva le informazioni e le trasmetteva ai più vicini – scrive Saramago. – Così, di letto in letto, le notizie facevano lentamente il giro della camerata, deformate a mano a mano che passavano da un ricevente al ricevente successivo, ridotta o aggravata in tal maniera l’importanza delle informazioni, secondo il personale grado di ottimismo e pessimismo di ogni emittente». E proprio come la fabbrica, i villaggi turistici o i grandi agglomerati forniranno una sintesi produttiva alla disarticolazione causata dal protagonismo delle merci, la socializzazione delle immagini oniriche che hanno consentito al potere di proiettare se stesso nel sogno della peste si produce nelle «pseudo-collettività» radunate intorno alla quarantena.

La quale sembrerebbe rinviare ai quaranta giorni di contumacia che nei periodi di pestilenza venivano imposti alle navi prima di entrare nei porti europei, sotto la stretta sorveglianza degli ispettori sanitari e rigorosamente all’ancora. Alla scadenza di quel periodo, dicevano gli esperti, qualunque tipo di sintomo si sarebbe fatto notare. Tuttavia risulta difficile credere che la latenza dei bubboni, in questo modo, non entrasse in risonanza con i quaranta giorni del diluvio universale, di Mosè sulla montagna, di Gesù nel deserto, la quaresima e l’ascensione, che dovevano fornire al provvedimento amministrativo la consistenza antropologica di una lotta finale contro il demonio. La peste rimarrà per molti secoli un segno della collera divina, anche, una punizione che il clero si candida a mitigare con una nuova e più minuziosa fenomenologia del peccato. La stessa corruzione dell’aria è soprattutto un problema di ordine morale, che si risolve con le penitenze e i pellegrinaggi, che non disdegna l’intervento dei santi e che dà libero sfogo alla persecuzione di prostitute, omosessuali ed ebrei.

La diffusione delle prime quarantene, infine, è contemporanea allo sforzo compiuto dalla chiesa per mettere a punto la dottrina del purgatorio, che del cosiddetto lazzaretto d’espurgo si direbbe quasi una variante teologica. Al di là della loro funzione temporale, dunque, è legittimo sospettare che ai quaranta giorni mutuati dalla medicina ippocratica fosse conferito un significato ideologico che attraverso la lingua – direbbe Gramsci – continua a infettare il nostro modo di convivere e di pensare.

Pericolosità sociale

Esistono frontiere interne alla città, con i loro porti chiusi e le loro “navi pirata”. Su una di queste frontiere opera da educatrice la mia compagna, che giusto l’altro giorno mi parlava di G.

Per molti adolescenti che stanno sulla frontiera G. è un punto di riferimento importante, il coetaneo corsaro su cui fare affidamento quando le cose si mettono male. Cose di casa, di scuola, di adulti.

Di questo stavamo parlando mercoledì sera, poche ore prima che alcuni agenti sbattessero i pugni sui portoni del condominio in cui vive G. e lo conducessero in questura, giovedì mattina all’alba.

Nel pomeriggio, così, siamo venuti a sapere che a G. veniva notificato l’obbligo di firma tre volte a settimana con l’accusa di essere socialmente pericoloso: sono stranissime le cose che accadono sulla frontiera.

Ma neppure troppo.

Quello di “difendere la società” è il pretesto inaugurale della penalità moderna, il violentissimo colpo di bacchetta magica (o di manganello) con il quale un nemico del potere diventa il nemico di tutti.

E’ il problema “privato” di una parte, come hanno sostenuto Marx nel dibattito sui furti di legna e Michel Foucault in svariati corsi al Collège de France, ma quella parte dichiara di agire in nome della sicurezza “pubblica”.

Poche ore prima di far avanzare i carriarmati in piazza Tienanmen, anche il governo della Repubblica Popolare Cinese dichiarò appunto che bisognava difendere la società dai contestatori e i contestatori da se stessi.

La questura di Modena avrà sicuramente assunto lo stesso atteggiamento paradossale e paternalistico, implicando l’idea piuttosto minacciosa che difendere i lavoratori e le lavoratrici dell’Italpizza, le popolazioni spossessate dal G7 o le vite pericolanti che attraversano quotidianamente la frontiera sia una forma di autolesionismo.

Si finisce male, poi vedi tu.

La chiamano “pericolosità sociale” ed è quella di chi è “pericoloso per sé e per gli altri” (articolo 203 del Codice Penale, per decreto regio e fascista del 19 ottobre 1930), ma tante volte sembra descrivere il pericolo al quale si espongono la società e gli individui quando prendono finalmente le parti di se stessi.

I nuovi radical chic: addio mister Wolfe

Quello a cui sembrò di assistere nei mesi estivi del 2014 fu il rovesciamento del sogno panafricano nell’incubo di una quarantena continentale. Le reazioni del mondo alla diffusione di Ebola si sarebbero potute definire pavloviane e animate da una delle risorse psicologiche più elementari del razzismo, che consiste nell’annientare qualunque forma di singolarità per trarre slancio dalla costruzione di una minaccia indifferenziata e proiettiva. Una minaccia che proprio l’emergenza epidemiologica può rendere ancora più credibile, dal momento che «la specificità della peste – ha scritto una volta René Girard – sta nella distruzione finale di ogni forma di specificità».

È solo in virtù di questo slittamento dell’uomo indifferentemente nero nell’uomo contagioso che si possono comprendere i riflessi condizionati della delegazione brasiliana che ha annullato il viaggio in Namibia, della compagnia di bandiera coreana che ha sospeso le partenze per il Kenia o degli assicuratori tailandesi che si sono rifiutati di volare in Sudafrica. Perché il Sudafrica dista quasi cinquemila chilometri dal contagio più vicino, che fatte le dovute proporzioni sarebbe come cercare il colonnato del Bernini in centro a Kabul. E tutto questo mentre l’OMS ribadiva che la stessa cancellazione dei voli per Conakry o Freetown o Monrovia, non solo rimaneva ingiustificata, ma riduceva di parecchie lunghezze le possibilità d’intervento.

Forse allora sarebbero bastati dei controlli un po’ meno inesistenti di quelli che hanno atteso il giornalista Sergio Ramazzotti al suo rientro dalla Liberia, prima in Belgio e poi in Italia, dove nessuno ha ritenuto interessante domandargli anche solo come si sentiva. Perché le uniche compagnie che a partire dall’autunno del 2014 hanno continuato ad assicurare un collegamento internazionale con la regione dell’emergenza sono la Brussels Airlines e la Royal Air Maroc, ma questo non significava ancora che il virus non potesse poi viaggiare da Casablanca a Linate.

Nel frattempo, il sito dell’edizione italiana del Scientific American precisava che Ebola si suddivideva in due sottocategorie e che solo il ceppo Zaire sarebbe stato quello che negli ultimi mesi aveva colpito duro «in Africa Orientale», vale a dire dalla parte opposta a quella in cui Ebola si stava dando effettivamente da fare. Ed è anche con il supporto di questo razzismo atmosferico, forse, che pochi giorni prima il blog di Beppe Grillo aveva potuto lanciare l’allarme tubercolosi, attenendosi alla sceneggiatura di quello che Michel Foucault avrebbe probabilmente definito un altro «sogno politico della peste». Un sogno che non si limita a postulare l’indistinzione tra i singoli paesi del continente nero, che rimangono pur sempre cinquantaquattro, ma che grazie a una peculiare tecnologia di condensazioni e spostamenti disinibisce la caccia al voto della propaganda populista.

Come accadeva al viceré di Artaud, infatti, che grazie alla «singolare forza del fascino esercitato su di lui da quel sogno» doveva impedire al Grand-Saint-Antoine di avvicinarsi alle coste dell’isola, il fantasma della peste poteva ancora corroborare il ripiegamento della politica «nella ferocia degli ordini, calpestando non solo il diritto delle genti, ma il più elementare rispetto della vita umana e ogni sorta di convenzioni nazionali e internazionali che, davanti alla morte, non contano più nulla».

Così, nel comunicato in cui esortava le istituzioni ad alzare la guardia dei controlli sanitari «su chi arriva da chissà dove nel nostro Paese», il «megafono» dei Cinquestelle non ha esitato a scomodare la minaccia di Ebola per farla finita con la rappresentazione degli italiani «come popolo di migranti che deve comprendere, capire, giustificare chiunque entri in Italia». L’appello alla comprensione, infatti, rimaneva solo una mezza verità messa in circolazione «dai radical chic e dalla sinistra», perché se proprio avessimo dovuto rifarci alla memoria collettiva bisognava considerare che «quando i nostri bisnonni approdavano negli Stati Uniti, Paese della Libertà, dopo aver visto la Statua con la fiaccola accesa, venivano subito confinati a Ellis Island in quarantena».

radical-chic-155918.jpg

Se non fosse che in questo modo, con la verità finalmente completa e superiore alle pose dei radical chic, il confinamento e Ellis Island veniva implicitamente promosso a riferimento esemplare, come se anche i popoli non potessero fare a meno di conficcare negli altri la spina dello stesso comando che un tempo hanno dovuto eseguire. Per Elias Canetti, la spina è «la forma dell’ordine immagazzinata» nell’interiorità di colui che obbedisce. A differenza di quanto avveniva in Massa e potere, però, a doversi liberare da quella forma rendendola nuovamente esecutiva, adesso, era qualcuno che non la ritrovava nel proprio passato, ma nella carne di un altro, perché chi celebrava il modello di Ellis Island non ci aveva mai messo piede. E gli emigrati italiani, così, diventavano gli stuntman che sostituivano i promotori della quarantena nelle scene più acrobatiche della propaganda, rivelando che qualcosa di simile all’esperienza della quarantena doveva aver caratterizzato l’infanzia del consenso populista.

Ma intanto, a Lampedusa, una volta che il comunicato sul «ritorno delle malattie infettive» si fosse tradotto in legge, sarebbe giunta finalmente l’ora di congedare i buoni sentimenti dei radical chic per ricorrere all’esempio degli Stati Uniti, dove il culto della libertà non aveva impedito di istituire la disciplina di Ellis Island. La quale prevedeva per esempio la somministrazione di un test che gli aspiranti immigrati dovevano affrontare non appena sbarcavano sull’isola, dopo dieci o dodici giorni di navigazione transatlantica, quando erano tenuti a scartare una tavoletta di cioccolato, confrontare due pesi, spiegare che cosa fosse un coltello, riprodurre a memoria due disegni e indicare gli oggetti nominati da un funzionario.

Le domande venivano tradotte nella loro lingua da un interprete, ma per essere rivolte a una massa di analfabeti che spesso parlavano esclusivamente il dialetto. Solo in questo modo, però, l’équipe medica di Ellis Island poteva realmente stabilire se aveva a che fare con un ritardato (quando riscontrava un’età mentale compresa tra gli 8 e i 12 anni), un imbecille (da 3 a 7), un idiota (da 0 a 2) o una persona normale. In base alle statistiche fornite dal direttore del servizio, così, tra il 1913 e il 1917 la diagnosi di ritardo si sarebbe abbattuta sul 79% dei «nostri bisnonni», che abbandonavano i locali del test con una lettera «x» sulla schiena. Dopo gli accertamenti, poi, quando la «x» veniva cerchiata, per gli uomini mentalmente deboli scattava l’ordine di rimpatrio sulla stessa imbarcazione che li aveva condotti nel paese della libertà.

05book_600

Anni dopo, quindi, a un detenuto tutt’altro che radical chic come Cyril Lionel Robert James, le autorità di Ellis Island avrebbero continuato a dare l’impressione di prediligere «la via dell’arbitrarietà e dell’incostanza, ricorrendo alla violenza e alla brutalità quando sono certi di farla franca, rimangiandosi le parole quando temono di essersi spinti troppo oltre e rifiutando di seguire qualsiasi principio, tranne il proposito di raggiungere un determinato scopo con i mezzi più immediatamente disponibili». Perché ciò che premeva loro, racconta sempre James, era «l’annientamento dei non cittadini come se fossero degli insetti nocivi», i quali non hanno più niente a che fare con il diritto ma con la concessione di una grazia. E se non gli piace quello che gli sta capitando, dicevano i funzionari di James, che tornino a bersi il loro succo di papaia.

O a mangiare il loro cous-cous, a questo punto, dove l’unico aspetto che rimane eventualmente da chiarire riguarda proprio il radical più o meno chic, colui che indulge alla «romanticizzazione degli animi primitivi» da una posizione di lusso, come lo definiva Tom Wolfe. Quello che ai party si riempie la bocca di sparatorie Black Panthers e assaggi di roquefort, naturalmente, ma anche il blogger che rimpiange i bei tempi di Ellis Island e dei «nostri bisnonni» da una tastiera in connessione Bluetooth.

(Ebola e le forme, Manifestolibri, Roma 2016, pp. 15-19)

“Io, quando appresi della morte di Gramsci, piansi”

(Tratto dalla testimonianza di Sandro Pertini in Gramsci vivo, a cura di M. P. Quercioli, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 275-280)

omaggio - sandro pertini

Connobbi Gramsci nel carcere di Turi di Bari, dove, dopo qualche giorno dal mio arrivo, stringemmo subito amicizia (…). Andavo sempre a passeggio con lui perché provavo un vero piacere ad ascoltarlo: la sua conversazione era sempre elevata, era un uomo di una cultura sempre di prima mano, preparatissimo; insomma, io avevo sempre da imparare standogli vicino.

Gramsci è stato certamente il cervello politico più forte, l’uomo di più vasta cultura che io abbia conosciuto lungo il mio cammino di militante politico. Quando polemizzava, giungeva a toni molto forti, anche aspri; ma era molto più umano di quanto non sembrasse (…).

La sua grande amarezza derivava dall’ostilità che gli dimostrava il gruppo dei detenuti comunisti che era a Turi, fatta qualche eccezione (…). Allora, per i comunisti, noi socialisti eravamo dei “socialfascisti”. Non per Gramsci, poiché egli prevedeva che un giorno vi sarebbe stata un’alleanza tra i socialisti, i comunisti e tutte le forze antifasciste. E riteneva fosse un grave errore quello di certi suoi compagni che ancora persistevano su questa posizione nei nostri confronti (…).

Ma soprattutto, ricordando le conversazioni con Gramsci, mi tornano alla mente i suoi discorsi su Torino operaia. Mi raccontava che alla sera, dopo aver lavorato al giornale, era felice di poter prendere contatto con gli operai della Fiat.

Diceva: “Poter stare con gli operai era un grande conforto per me, come un bagno di umanità. E quante esperienze ho fatto da questi incontri! Sai, gli uomini di cultura devono essere come delle levatrici, cioè devono estrarre loro dalla mente dell’operaio, dal movimento operaio, tutto ciò che serve per la lotta, per la loro stessa cultura”.

E aggiungeva: “Guai a quegli intellettuali, anche d’avanguardia, che si chiudono nella torre d’avorio della loro cultura e credono che questo basti per esprimere il loro pensiero, senza stabilire legami con la classe operaia. L’intellettuale, se vuole provare la validità del suo pensiero e delle sue concezioni, deve stare a contatto con il movimento operaio; chi se ne distacca gira a vuoto” (…).

Gramsci era molto ammalato e il lungo soggiorno in carcere aggravò le sue condizioni di salute. Indubbiamente in libertà sarebbe riuscito a sopravvivere. Il pubblico ministero al tribunale speciale disse che per vent’anni quel cervello non avrebbe più dovuto funzionare e il fascismo lo fece tacere per sempre (…).

Io, quando appresi della morte di Gramsci, piansi (…). Dal punto di vista affettivo è stata per me la perdita di un amico carissimo. Ma capii anche che si trattava di una grave perdita politica, non solo per il partito comunista, ma per tutto il movimento operaio italiano e internazionale. Questa morte ha lasciato un vuoto profondo, che non è stato colmato da nessuno.

Dal montanaro al senegalese: il corpo della nazione

Un uomo esce di casa armato e uccide un senegalese. E’ un ex tipografo di 65 anni, si chiama Roberto Pirrone e il procuratore capo di Firenze lo descrive così: «Ha sparato al primo che capitava, aveva problemi economici e voleva uccidersi». Se digitate il suo nome su Google succede questo:

Pirrone

Pare infatti che da giovane il killer fosse stato iscritto al PCI e che tuttora collezionasse colbacchi e vecchie mostrine dell’Unione Sovietica. Eppure quella che dovrebbe essere la sua parte politica (cioè la mia) in queste ore sta insistendo molto perché le parole del procuratore capo non offuschino l’evidenza di un omicidio a sfondo razzista, dal momento che il vero razzismo è proprio quando muori per pura casualità dentro un ambiente che te la scaraventa addosso.

Se muori a causa di un infarto mentre raccogli i pomodori sotto il sole di Nardò è sicuramente vero che poteva capitare a chiunque altro, ma per te il caso ha avuto una predilezione. E così se sei sul ponte Amerigo Vespucci di Firenze a vendere ombrelli, in entrambi i casi non è del tutto indifferente il ruolo che determinati fattori psicologici e sociali ti hanno assegnato sulla linea del colore.

Ma è davvero difficile parlare di razzismo in un paese che lo ha sempre respinto come un luogo comune perché proprio al dispositivo della razza ancorava le proprie chance di identità. «Fare gli italiani» ha immediatamente significato inferiorizzarne una parte – considerarla maledetta, degenerata, dolicocefala, trapiantarla nelle città del nord come manodopera clandestina e dunque sottocosto fino al 1961 (anno in cui viene abolita la legge fascista contro l’urbanismo) e facendole svolgere la funzione coesiva, governamentale del nemico interno.

Lombroso

Senza l’offuscamento del razzismo nei confronti di montanari, contadini e terroni si sarebbero inceppati i processi di accumulazione originaria, non avremmo avuto il boom e la rendita immobiliare, la dolce vita e i distretti industriali, attraverso un fiume melmoso di rimozioni che conduce fino all’attuale corpo della nazione, davvero poca roba al di là della finale all’Olympiastadion di Berlino o delle barriere fisiche, mentali ed elettorali che ora vengono riarticolate contro il pericolo del nuovo nemico interno.

Per cui anche sul ponte Amerigo Vespucci non è accaduto nulla di razzista, è solo il caso che si è introdotto nella giornata di un venditore ambulante di ombrelli e l’ha freddato con un colpo alla testa. Eppure si direbbe un caso davvero coerente a una serie di notizie che chiunque può ricavare dagli archivi del web, lo stesso in cui spopolano le ricerche su «Roberto Pirrone comunista», perché anche la politica qua da noi ha sempre assunto le forme della razza padrona contro la razza plebea.

Sono i fossili di una vita presente: i due senegalesi aggrediti a colpi di spranga da un gruppo di italiani il 4 dicembre 2001, a Varese, i due operai senegalesi che nel dicembre 2017 vengono pestati a sangue dai titolari di una conceria a Santa Croce sull’Arno in cui avevano lavorato, ma dove non intendevano pagarli.

Disparition-mystérieuse-d_une-«-fatou-fatou-»

Il 22 luglio 2016 l’addetto alla sicurezza di un locale romano anche lui senegalese viene ridotto in fin di vita da cinque nativi a colpi di sgabello, mentre gli urlano negro di merda. Il 19 dicembre 2017 un senegalese di 22 anni sale sul treno a Lambrate, capita nel vagone dei tifosi milanisti, scende a Treviglio e viene soccorso dall’ambulanza.

Nel maggio 2017 un venditore ambulante senegalese di 54 anni muore per circostanze tuttora da chiarire mentre scappa dai vigili a Lungotevere de’ Cenci, mentre alle tre e mezza di una mattina del 2015, a Sassari, un ragazzo senegalese viene pestato con la mazza da baseball.

Era senegalese anche il ventottenne aggredito nel 2006 in via Moncalieri a Milano: due italiani gli avevano quasi mozzato una mano con il machete – ed è un compagno di squadra senegalese quello che il capitano dell’Atletico Villareto ha dovuto difendere dagli avversari alla fine di una partita nel marzo 2017, rimettendoci un occhio.

Nel 2014 viene accoltellato un altro calciatore senegalese, non di terza categoria ma di serie B: si chiama Lo Youssou e gioca nel Vicenza, mentre il 13 dicembre 2011 due connazionali dell’uomo ucciso per caso sul ponte Amerigo Vespucci (uno pare fosse addirittura suo cugino) vengono ammazzati sempre a Firenze da un attivista di CasaPound, Gianluca Casseri.

Sono appunto i fossili di un passato che dura a morire: il nostro.

Lotta alla povertà: l’eccezione di Potere al Popolo

I Daniel Blake2

C’è una vecchia immagine di Siegfried Kracauer che andrebbe rispolverata, quando in un articolo del 1930 sulla disoccupazione berlinese osservava la tendenza della povertà a risultare comunque vistosa. «Ora fa visibilmente sfoggio dei suoi stracci rattoppati – scriveva – ora si ritira con pudore borghese in un angolo nascosto. Nel caso di quel sarto vestito meglio degli altri, la povertà si è scelta come ultimo rifugio i polsini della camicia». E’ l’enunciazione di un principio che si potrebbe rendere anche con il detto padovano «Xe pèso el tacòn del buso», ma proveremo a lasciarlo operare in un contesto meno generico.

Perché quello del polsino del sarto si direbbe un dispositivo che entra in funzione anche in molti degli attuali programmi elettorali quando affrontano l’emergenza della povertà, dove la morale sottesa all’immagine di un abito decoroso assicura al tempo stesso l’occultamento e la rifunzionalizzazione dell’indigenza, come se spettasse davvero al povero dargli una forma meno drammatica e conturbante. Poi è chiaro che parlare dei poveri significa verificare cosa dicono i programmi anche in materia di occupazione, spesa pubblica, debito, accesso ai servizi, diseguaglianze, urbanistica, salario minimo, riduzione dell’orario di lavoro e molte altre cose – ma è proprio questa densità a fare delle cosiddette politiche per l’inclusione un tema al quale è possibile attribuire un’importanza preliminare.

Gli ultimi dati dell’Istat parlano chiaro: in Italia aumentano sia gli individui a rischio di povertà (20,6%) sia quelli che vivono in famiglie gravemente deprivate (12,1%), quasi un terzo della popolazione complessiva che il governo Gentiloni ha collocato al confine tra le politiche per il decoro urbano e il reddito di inclusione introdotto a partire dal gennaio 2018 (Rei). Ma se da un lato il Rei ha come momentanei beneficiari il 38% dei poveri assoluti – vale a dire 1,8 milioni su 4,8 aventi diritto – dall’altro la difesa del decoro si abbatte indistintamente su chiunque venga sorpreso a mendicare senza un’adeguata conformità al cerimoniale della charity.

Perché anche il povero davvero povero deve sapersi attenere ai comportamenti che al povero impongono le indicazioni della regia neoliberale. A stabilirlo potrebbe bastare una massima attribuita per errore a Margaret Thatcher, che evidentemente non ne tradiva lo spirito: un uomo che dopo i 26 anni viaggia ancora in autobus – faceva – si può considerare un fallito. In questo senso, l’ordinanza emessa dal sindaco di Como lo scorso Natale, quella che impediva ai senzatetto di deturpare con la loro esistenza il paesaggio dei consumi, ricorda la recluta che sembra compiere un passo avanti solo perché tutti gli altri lo fanno indietro.

Sarebbe però ingenuo credere che a ispirare le politiche per l’inclusione e le politiche per il decoro siano due sensibilità opposte o anche solo complementari, perché al cuore nero di entrambe pulsa la medesima certezza nel fatto che i losers, in fondo, come scriveva già negli anni novanta André Gorz, «non abbiano altri da biasimare che se stessi». Và da sé che in materia di povertà il Partito Democratico proponga quindi di «raddoppiare i fondi per il reddito di inclusione», vale a dire di estendere a una quota ancora parziale delle emergenze rilevate dall’Istat la propedeutica del workfare e dell’attivazione, cioè un sostegno economico in cambio della totale disponibilità a non commettere più errori.

Sempre che il povero non abbia immatricolato un’auto o una motocicletta da meno di due anni, dice la legge, perché allora lo sbaglio risulterebbe talmente imperdonabile da fargli perdere qualunque accesso alle graduatorie. Alla fine si tratta ancora della bambinata che Marx criticava all’economia classica – o della tendenza del capitale a risolvere le proprie contraddizioni imputandole ai limiti soggettivi di chi le patisce.

La potremmo definire una disciplina del polsino, insomma, che non si limita a nascondere lo scandalo della miseria, ma ne illumina a giorno i doveri, le responsabilità, il vizio e i compiti, la funzione alla quale si deve attenere per fare la propria parte nei processi di riproduzione sociale.

Ed è appunto così che i losers vengono mobilitati anche in Germania, dove dal 1° gennaio 2005 è entrata in vigore la quarta parte dell’Hartz-Konzept su indennità e sussidi sociali, proprio come dovrebbero attivarsi secondo il programma di Liberi e Uguali, che propone di «estendere il Rei in modo da renderlo realmente uno strumento universale di contrasto alla povertà assoluta», completando il lavoro del governo uscente e assumendone pertanto le premesse.

Premesse rese ancora più rigide ed esplicite, eventualmente, dalle parole con cui Di Maio ha illustrato la proposta dei Cinquestelle ai microfoni di Radio 105, quando rivendicando la propria obbedienza alla dottrina del workfare ha dichiarato: «Il reddito di cittadinanza non darà soldi a chi vuol stare seduto sul divano. Dovrà, per il breve periodo in cui avrà il contributo, formarsi e dare otto ore di lavoro gratuito allo Stato». Per un cifra stimata di 780 euro al mese, dunque, il signore del castello potrà assicurarsi la giornata lavorativa dei vassalli che senza un severo disciplinamento rimarrebbero tutto il tempo sul divano a cazzeggiare: sono gente così, i poveri.

Ma al di là degli aspetti di ordine morale, quello che la retorica dell’attivazione serve davvero a rimuovere è il lavoro vivo che nel «tempo socialmente utile» a trasformare qualunque cosa in merce, ciascuno di noi fornisce gratuitamente all’investitore, che se ne appropria in forma di valore. Un valore che scaturisce da prestazioni sociali indubbiamente produttive ma non contrattualizzate, che in questo modo rimangono esclusivo appannaggio del capitalismo delle reti e dei monopolisti delle piattaforme.

Non solo dunque paghiamo in termini di logoramento l’intermittenza occupazionale più confacente ai nuovi modi di produzione, non solo lavoriamo gratis o a cottimo, ma fronteggiamo personalmente il trasferimento delle risorse dal welfare alla speculazione finanziaria, attraverso il debito.

Nel frattempo il capitalismo estrattivo mette a profitto il nostro territorio, lo spazio pubblico, il bene comune, il paesaggio che manutendiamo socialmente e fiscalmente, ma le comunità depredate non finiscono mai a libro paga. I nostri corpi e i nostri desideri svolgono quotidianamente un lavoro di hacking per l’implementazione dei sistemi smart, dei sensori e degli attuatori, siamo al tempo stesso la materia prima e i produttori di big data, profilazioni, contenuti, strategie di vendita e di investimento e tutto questo lo facciamo anche solo con quella che già Engels definiva l’ultima proprietà del povero: la nuda vita, la stessa che l’automazione e la rivoluzione digitale stanno progressivamente sfrattando dai luoghi legali del lavoro salariato.

E’ importante allora sottolineare come nel programma di Potere al popolo l’istituzione del reddito minimo garantito non ponga condizioni o vincoli di sorta, come intenda agire «contro l’esclusione sociale e la precarietà della vita» senza postulare una contropartita, cioè muovendo dal presupposto storico e politico che il povero non è un individuo da correggere, ma da risarcire. Altrettanto importante, però, ci pare coglierne l’insufficienza di questa proposta, perché come ha scritto Marco Bascetta sull’ultimo numero di Quaderni per il reddito «la confusione tra povertà ed esclusione è il primo equivoco da smantellare. Esiste infatti un crescente numero di poveri perfettamente integrati nei processi di produzione».

Sarà di questa povertà inclusa e ricattabile, allora, della povertà rifunzionalizzata sotto un polsino della camicia o colpevolizzata dagli agenti del decoro che bisognerà cominciare a occuparsi, magari nei termini storicamente più rigorosi del reddito di base. Una misura che non dovrà in nessun caso rappresentare un’alternativa al welfare, perché laddove il secondo ridistribuisce una parte del valore prodotto dalla forza-lavoro salariata, il primo riconosce direttamente una parte del valore prodotto dall’operosità sociale diffusa.

Ecco perché l’obiezione classica al reddito di base («nessuno farà più nulla, i profittatori camperanno sulla fatica degli altri») gira pericolosamente a vuoto: non solo per il moralismo patetico del benestante che bolla come pigro o scansafatiche il povero che rifiuta di farsi mangiare la vita dal lavoro, ma soprattutto perché si tratta di un’obiezione incapace di riconoscere come l’accumulazione contemporanea sia sempre più legata alle attività non salariali e non retribuite.

Non c’è nulla di passivo – già ora – nell’operosità sociale cui il reddito di base darebbe finalmente riconoscimento. Al contrario, allentando il ricatto del lavoro povero e l’obbligo di accettare salari indecenti pur di guadagnare qualcosa, aprirebbe un importante spazio di attivazione sociale radicalmente alternativo a quello punitivo e colpevolizzante del workfare. Un’attivazione e un modo di agire la partecipazione collettiva che finalmente rifiuta i criteri di valutazione imposti dalle istituzioni sottomesse al vangelo dell’austerity, per affermare il diritto a decidere autonomamente come stare insieme e cosa produrre affinché tutte e tutti possano godere della libertà dal bisogno.

 

Pierpaolo Ascari (Potere al Popolo – Modena)

Emanuele Leonardi (Potere al Popolo – Parma)

Ceci n’est pas un fasciste: il ministro della nazione

Minniti

Ho letto la quarta puntata dei reportage di Fabrizio Gatti sulle periferie italiane. Li pubblica l’Espresso, sono bellissimi, speriamo che Gatti decida poi di farne un libro. Ma bellissimi non va bene: sono pugni allo stomaco, di una desolazione incredibile. Dopo Torino, Brescia e Ferrara, questa è la volta della Brianza, ma esiste un filo rosso anzi nerissimo che attraversa tutte le descrizioni.

E’ il filo che collega la deindustrializzazione alle sigle che si richiamano esplicitamente al primato nazionale, l’identità, viva il duce. Poi per Minniti sarà pure morto – il fascismo – ma intanto l’esplorazione di Gatti si imbatte puntualmente nella sua esaltazione, viva e militante.

Piena di paradossi, certo, come quella del ristorante giapponese che impiega almeno un 50% di lavoratori egiziani o comunque stranieri: lo gestisce un gruppo di estremisti che per quanto Minniti sia convinto della loro inesistenza fatturano circa un milione di euro all’anno.

Ma con le contraddizioni non andiamo lontano, non basta neppure segnalare che mentre punta il dito sulla sostituzione etnica, Roberto Fiore ha un ruolo importante nella delocalizzazione di alcuni produttori italiani in Crimea, cioè che alla sostituzione etnica dei lavoratori provvede personalmente lui, perché tanto chi è d’accordo con quello che dice continuerà a tenere d’occhio l’africano.

Soprattutto perché nelle periferie si è oggettivamente imposta la legge del più forte, spesso straniero, anche se concessionario di un prodotto igt: il traffico internazionale di droga. E cosa contano le contraddizioni o la ricostruzione della filiera quando hai tutti i giorni il problema del dettagliante, il nigeriano che ti piscia sul portone?

Così anche in Italia stiamo assistendo a una radicalizzazione analoga a quella descritta in Francia, dove il fondamentalismo fermenta tra gli avanzi periferici della decolonizzazione e tra i figli degli immigrati borghesi.

I primi, dicono gli scienziati, si radicalizzerebbero in seguito ai loro ripetuti incontri con la gendarmeria, le carceri e tutte le altre conseguenze di un progressivo abbandono del welfare a favore dell’ordine penale; i secondi per motivi più ormonali, romantici, sono i nuovi radical chic del terrorismo islamico e dell’estrema destra che inneggiano alla violenza dai banchi delle scuole bene, i mondi artificiali in cui non esistono poveri e disabili.

Ma proprio come i radical chic di Tom Wolfe, che senza le Pantere Nere non avrebbero dato il loro party, il fascismo coi soldi esiste solo in rapporto alla radicalizzazione meno romantica del conflitto sociale nei sobborghi o in provincia. Quella che per Minniti non esiste perché le tensioni che esaspera possano agire più indisturbate, come quando neghiamo l’esistenza di una nevrosi o di una dipendenza alla quale non sappiamo rinunciare.

Nelle periferie esiste al limite un problema di ordine pubblico, spoliticizzato, biologico, di marginalità da prevenire con le bande libiche o da spostare nella provincia accanto, con l’emissione di un daspo.

Guai parlare di fascismo, dunque, ma guai parlare anche di lavoro dignitoso e welfare locale: è esattamente per negare l’annientamento dei secondi che deve agire indisturbato il primo, perché da che mondo è mondo il fascismo ha sempre svolto la funzione economica di produrre un ambiente indifferente alle strategie del capitale, non solo in Crimea.

Così, con un consenso che spazia da CasaPound fino al campo progressista, quello di Minniti non è un ministero degli Interni ma della nazione, con ampie competenze in materia di neocolonialismo italiano, affari sociali, disciplinamento della forza lavoro e sussidi razzisti alla sopravvivenza quotidiana di piccole imprese, artigiani ed esercenti.

Nel frattempo un’alleata dello stesso ministro, Emma Bonino, propone di bloccare la spesa pubblica per cinque anni e contro chi piglia a sassate questa loro macchina da guerra partono le cariche della polizia.

Guardate, allora, accade qualcosa di magico quando tirate in ballo «il fascismo degli antifascisti». Accade che con quell’espressione Pasolini definiva coloro che l’antifascismo lo usano solo per prendere voti, «mantenendo l’impunità delle bande fasciste che loro stessi, se volessero, liquiderebbero in un giorno». Accade che state parlando di voi.