Pasolini al mare

Memoria del mondo e ricordi d’infanzia: nel nuovo romanzo avrebbero dovuto coincidere, ma Pasolini non lo scriverà oltre l’introduzione (Coleo di Samo) e un capitolo autobiografico (Operetta marina). Capitolo nel quale di marino c’è soltanto un’esplicita trasfigurazione del Po, ma non cambia nulla, dato che in fondo a quella memoria e a quei ricordi bisognerebbe vedere come era il mare «prima di essere pensato» o «come sarebbe sempre stato se noi non lo avessimo mai veduto». In mancanza di una memoria minerale, allora, Pasolini si affida ancora una volta alla «ristrettezza di una superstizione plebea più che proletaria», all’«odore di cattivo tabacco, di Nazionali o mozziconi raccolti sui marciapiedi delle taverne, nell’ora in cui le prime strisce di urina cominciano a rigarli» e a una complessiva «povertà così ricca di potenza umana» da corrispondere finalmente alla potenza racchiusa nei ricordi dell’infanzia. Sul mare si poserà quindi lo sguardo anonimo di «un vecchio di Peschici o un giovanotto di Napoli, con una identica ignoranza».

Sguardo anonimo, si diceva, ma piuttosto convenzionale: Robinson Crusoe è la storia di un naufrago dal nome storpiato, il protagonista de I lavoratori del mare ha «un nome qualunque», Nessuno è il comandante del Nautilus, Nessuno è arrivato dal mare per conficcare un tronco d’ulivo nell’occhio di Polifemo e davanti al monumento incontrastato di questo genere di cose, scrive CLR James, bisognerà rassegnarsi all’evidenza che a farsi chiamare Ishmael è uno di quei tipi che «vivono all’angolo di ogni strada». Le ragioni di questa indifferenza sembrano rinviare al rapporto che il mare deve aver stabilito nei secoli con tutti coloro che vi hanno cercato e trovato una via di fuga, come diceva Carlo Levi degli emigrati negli Stati Uniti:

Essi hanno abbandonato le antiche terre d’Europa fuggendo le sue eredità e le sue passioni, fuggendo le persecuzioni religiose o i conti da rendere alla giustizia, e il peso delle infrazioni alle regole della vita comune, o le discriminazioni razziali, o i rapporti feudali, o la servitù, o la miseria. Questi pesi della storia sono rimasti di là dal mare. E ogni uomo, nella sua vicenda individuale, ha compiuto il volontario rifiuto della storia che è il battesimo americano.

E’ esattamente in questo mare, un mare che consente di sopravvivere al proprio nome e alla propria storia, attraverso uno sguardo disorganico al dominio perché residuale, che il vecchio di Peschici o il giovane di Napoli incarnano la possibilità di vedere le cose come se fosse la prima volta, ma da una precisa angolazione politica. Perché l’alternativa di Pasolini al «mare originario» ha preso la forma indicata dalle rappresentazioni sociali di Coleo e l’unica genesi alla quale il programma archeologico deve ambire, a questo punto, potrà emergere soltanto da uno sguardo incapace di consapevolezze. In una pagina di Atti impuri, a questo riguardo e facendo riferimento agli stessi pomeriggi in cui il maltempo gli impediva di assistere alle metamorfosi del Po, Pasolini ricorda:

Allora mi si proponeva il fatto della rappresentazione come qualcosa di compromettente e di primordiale, appunto perché in uno stato di purezza: l’equivalente doveva essere definitivo.

Anche l’archeologia del mare, così, il programma che sfuma nella ricerca puntualmente delusa di un mare inorganico e poi incontaminato o quantomeno preverbale o se non altro inconscio, non approda necessariamente alla «ristrettezza di una superstizione plebea più che proletaria» che in qualche modo rimarrebbe fedele alla purezza dello slancio iniziale, ma rappresenta la prospettiva ideologica in cui si è potuta esprimere la qualificazione preliminare di una specifica forma di vita. Non è l’occhio del vecchio anonimo e plebeo a trattenere un riverbero dell’origine, ma il mito dell’origine a prodursi nella preferenza accordata a quello sguardo.

Così, la descrizione più corretta di ciò che accade in queste pagine, la potrebbe aver fornita lo stesso Pasolini all’inizio della Divina Mimesis, quando i ricordi d’infanzia e la visione degli operai vestiti a festa per una riunione di partito non si giustificheranno più per la loro eventuale prossimità a una vita più autentica, ma con il tentativo esplicito di fare «esperienza di una forma di vita allo scopo di esprimerla».

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